Titolo: Uvaspina

Autrice: Monica Acito

Casa editrice : Bompiani

Genere: Narrativa

Pagine: 405

 

Uvaspina di Monica Acito. Ho chiesto di leggere questo libro, alla casa editrice Bompiani, attratta soprattutto dall’ambientazione, Napoli, nello specifico in un quartiere che chiamo “casa”.

Napoli è la mia città, è una città molto grande, una città con mille sfumature, come dice Pino, “Napule è mille culure.”

Mi piange il cuore, quindi, nel non ritrovare in questo libro il colore del mio quartiere.

Purtroppo quello che mi aspettavo di “vedere” non lo vedo!

Non metto in dubbio, ovviamente che ognuno, che non sia napoletano, possa ricevere un input differente dalla città, ma mi permetto anche di dissentire.

La storia di Uvaspina, sua sorella Minuccia, la madre la Spaiata, e il padre Pasquale Riccio, si svolge per la maggior parte della narrazione, nel quartiere Chiaia, poi ci spostiamo qualche volta a Posillipo, i ricordi di gioventù della Spaiata invece, derivano dal quartiere Forcella.

Lei Graziella, una giovane donna che viene pagata per piangere ai funerali, “incastra” Pasquale, con la sensualità che la contraddistingue.

Pasquale Riccio è figlio dell’alta borghesia napoletana, di un notaio per l’esattezza. Contro il parere della famiglia di lui, i due ragazzi si sposano.

La Spaiata inizia così la sua scalata sociale. Da questo matrimonio, nascono Uvaspina e Minuccia, di cui vi parlerò tra un attimo.

Partiamo dalle notizie sull’ambientazione fisica, sulla quale purtroppo non riesco a trovarmi:

“[…] e infine a un certo punto si alzava dal letto, perché s’era scocciata di aspettare il momento in cui sarebbe morta, e nell’attesa si andava ad accendere una sigaretta vicino al balcone da dove si vedevano Mergellina e la luna rossa, perché si sa, le sigarette di contrabbando l’avevano sempre aiutata a sopportare l’attesa.”

Siamo all’inizio del romanzo e dalla descrizione della vista della camera della Spaiata, avendo specificato già in precedenza che il quartiere dove si trova è Chiaia, posiziono la casa in zona Mergellina, al massimo un piano alto della Riviera di Chiaia.

Invece no… poco dopo viene più volte specificato che la famiglia abita in Vico Belledonne. Il quartiere è lo stesso, ma a un chilometro circa da Mergellina e senza assolutamente questa visuale.

Successivamente, viene detto che il vento che arriva in camera della Spaiata deriva da “I gradoni di Chiaia”, noto vicolo dei Quartieri Spagnoli, ma il vento per arrivare fino a Vico Belledonne, dovrebbe fare un giro immenso, poi credetemi,  i quartieri spagnoli, data la struttura, non sono notoriamente una zona ventilata. Comunque questa l’ho presa come una “piccola licenza”. Ho pensato “Dai ci può stare, non essere così puntigliosa.”

Quando leggo però che un tipo borghese di Chiaia, quartiere notoriamente “fin troppo snob”, abita a Vico Belledonne, praticamente a pochi metri dai famosi Licei di Chiaia, status sociale imprescindibile, per il tipo di borghesia che mi viene nominata nel romanzo, manda i figli a scuola al liceo Pimentel Fonseca di piazza del Gesù, mi chiedo la ragione…

Sicuramente potrebbe essere “ideologica”, in quanto sicuramente non logistica, data la  distanza, ma non mi pare di capire che i nostri personaggi abbiamo una particolare ideologia politica da supportare attraverso questa possibile scelta.

In ogni caso mi aspettavo fosse spiegata questa scelta…

Passiamo adesso alla nota più dolente…

Il linguaggio. È forzatamente sempre dialettale e alcuni termini spesso utilizzati hanno per noi napoletani una sfumatura “estremamente volgare” o comunque “pesante”, e non vengono utilizzati nel comune linguaggio parlato o “pensato” da una persona che corrisponde alla descrizione di Pasquale Riccio, o di due ragazzini cresciuti in un quartiere così “snob”.

Ah giusto… sono figli della Spaiata, ma forse nemmeno lei, nella sua idea di salto di classe, ha messo in conto di non insegnare ai figli e parlare come due ragazzini “di strada” che purtroppo, magari a scuola non ci possono andare per mancanza di possibilità, o perché devono “badare alla famiglia.” Ma non mi pare il caso di Minuccia e Uvaspina.

Mi dispiace ma a volte un linguaggio così scurrile non l’ho trovato utile e funzionale all’economia del romanzo. Un po’ too much il tutto.

Per quello che mi riguarda, un gran peccato, perché  la storia ha, a mio parere,del potenziale.

Uvaspina, è un ragazzo delicato, sensibile, che consapevole della sua omosessualità non si sente accettato dal padre, dalla sorella e dalla società,  marcatamente “chiusa”, che lo circonda. Vive un rapporto complesso con sua sorella Minuccia, uno strummolo come la chiama lui, cioè una trottola, che quando inizia a girare non si ferma fino a quando non ha distrutto tutto ciò che ha intorno. In realtà la ragazza è affetta da un forte disturbo mentale, ed è anche autolesionista.

Insomma, non voglio essere ripetitiva, ma forse troppa ricerca di folklore, in una Napoli, che ultimamente è forzatamente esasperata, da una corrente che sembra andare di “moda”.

M.

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